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“Vedi Stefano dove c’è mio padre? Ecco, voglio essere messo esattamente sotto di lui”
Mio nonno era sicuramente un personaggio particolare. Quando mi disse dove desiderava essere sistemato sulla lapide di famiglia una volta passato a miglior vita, non considerai più di tanto le sue parole. Vuoi che avevo poco più di nove anni, vuoi che quel pomeriggio il mio scopo principale era finire Pokemon Giallo (rigorosamente su Game Boy Color). Eppure adesso, quando vado a “trovarlo”, amo osservare la disposizione marmorea dei miei lontani parenti. Anche perché vi è un significato banale ma non semplice da cogliere: il tempo.
Il primo che salta subito all’occhio è Domenico, classe 1838. Quando ci furono le famose 5 giornate di Milano e i vari moti in giro per l’Europa aveva poco più di dieci anni. Ha visto tutto il risorgimento italiano: l’Unità, Cavour, persino Torino Capitale. Dei suoi ricordi è rimasto poco, a parte la classica foto dedicata: baffetti classici del tempo e sorriso pure spontaneo. Sarà un caso particolare, ma è l’unico della lapide che sorride. Specie se si considera chi viene sotto di lui.
Bernardo, classe 1890. La foto presente dice già tutto: broncio, sguardo cattivo, annoiato. Mio padre ogni tanto lo ricorda con siparietti da vero uomo acido di campagna. Come quando in Estate, la stagione dl lavoro sui campi e della legna, si mise a piovere e non potendo più lavorare con passione, Tornò a casa esclamando in un signorile piemontese - “Sa l’è vea che al’è un signor che cumand el temp, al’è propri un gran bastard”- (meglio non tradurre)
Trattava malissimo la moglie o meglio, amava burlarsi di lei in presenza di qualcuno per ridere dei suoi pianti liberatori. Anche in presenza dei figli, che almeno erano più sensibili. Si dice però che alla morte della consorte si lasciò scappare due episodi abbastanza chiave: il primo, quello di lasciarsi lentamente morire in neanche un mese dando tutto il cibo al gatto, che nel frattempo era diventato un botolo. Quasi come un forte segno di rassegnazione. Il secondo, fu la visita del prete per la “benedizione” della casa (?) dopo la morte dell’ “amata” Giuseppina. Nel bel mezzo della preghiera, se ne uscì con un ancora elegante –“ Eeeh, te ne ha dati di soldi mia moglie per fare sta buffonata”-
Mio padre non ricorda il volto del parroco in quel momento. Ma immaginatelo voi.
L’ultimo posto non si può cancellare e bisogna tornare indietro con la mente a ormai dieci anni fa.
Mio nonno amava tantissimo ricordare con orgoglio i fasti di ciò che è stato. Adorava tantissimo raccontare ogni minimo particolare al bambino che ero, trasmettendo tutto quello che aveva imparato e vissuto. Visse per ottantanove anni e vide ogni (s)fortuna del ‘900: le guerre, il fascismo, il non reclutamento per non andare in Russia nel ’43, la Repubblica, il Grande Torino, Mina prima e Mike Bongiorno dopo, da Andreotti a Craxi, persino il Berluskaiser.
Sognava vedermi grande e raccontare scorci di famiglia come lui ha fatto con me. Sul vedermi grande ci sto ancora lavorando, sul secondo lascio scorrere i ricordi tra queste righe. Perché con presunzione posso ammettere un qualcosa che forse ho imparato: chi dimentica le radici, spesso, scorda che cosa sarà.
Stefano Gurlino
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