venerdì 22 maggio 2015

HORROR CULT - Psycho

L'invenzione della follia

 

Anno: 1960
Regia:
Alfred Hitchcock
Soggetto:
Robert Bloch
Cast:
Janet Leigh, Anthony Perkins, Vera Miles, John Gavin
Budget:
800.000 $
Botteghino:
50 Mln $
Produttore:
Shamley Productions
Voto: *********1/2*

La scomparsa di Marion Crane, una giovane segretaria, mette in allarme la sorella Lila e il fidanzato/amante Sam, nonché il suo datore di lavoro, che le aveva affidato proprio quella mattina una grossa somma di denaro da consegnare a un cliente. Preoccupati per la sua sorte e per le conseguenze del furto, Lila e Sam ripercorrono i passi di Marion, attraverso le strade dell'Arizona fino al Motel dove aveva alloggiato la notte precedente. Ma quello che loro non sanno, e che noi spettatori sappiamo benissimo, è che Marion è già morta, accoltellata dalla madre di Norman, il gestore del Motel, un innocuo ragazzo goffo e tonto. Questi, per coprire il delitto compiuto dalla madre, ha ripulito la scena del crimine e affondato la macchina ed il cadavere di Marion nel lago accanto alla strada. La vicenda sembra conclusa, il caso già delineato prima ancora di cominciare, come in un episodio del Tenente Colombo. Ma ci sbagliamo. La trama ci riserva ancora grandi sorprese. Sorprese orribili e perverse.

C'è tanto da dire di questa sordida tragedia psicologica suburbana: tanto da dire della tecnica, dell'enorme influenza stilistica sui generi Horror e Thriller e dell'altrettanto enorme sua influenza culturale.
Hitchcock ha saputo, come in altri casi, costruire un prototipo di film, un oggetto fondamentale nella formazione degli addetti ai lavori e degli stessi spettatori dell'universo cinematografico. La rivoluzione sta principalmente nella trama, una trama complessa ma sottile, che nemmeno anni di riproduzioni, rivisitazioni e profonde (spesso troppo profonde) prese di ispirazione sono riuscite a banalizzare. Stupisce (e non stupisce), un famoso aneddoto che vuole come fonte di ispirazione del film un libello (il libro citato come soggetto, di Robert Bloch) acquistato dal regista su di una bancarella, libello che non solo non aveva avuto successo fino ad allora, ma non ne ebbe nemmeno dopo l'uscita del film tanto era ordinario.
Hitchcock usa gli attori a modo suo, costruendo caricature un po' artificiose di uomini e demoni, che si muovono sulla scena in balia degli eventi e schiavi del destino, destino abilmente manipolato dal regista-burattinaio, nascosto dietro alla macchina da presa (stesso stile usato, in modo molto meno efficace, nel celebre «Delitto Perfetto» di qualche anno prima). Non parlerò del colpo di scena finale (comunque sappiate che c'è), perché è su di esso che si basa l'efficacia del film. Una tattica antica che Hitchcock ha riformulato con genio, tanto da convincere molti (anche me) del fatto che nessuno l'abbia mai usata realmente prima di questo film, e solo pochi dopo.

A Psycho spesso viene paragonato l'Halloween di Carpenter (che ho recensito la scorsa settimana, lo trovate QUI) per alcune evidenti similitudini stilistiche, che tuttavia si limitano al coltello da cucina (a quanto pare denominatore comune del sotto-genere detto slasher, categoria di cui francamente non ho mai sentito il bisogno), al fatto che ci sono di mezzo i matti e (il più importante forse) allo stile di recitazione di cui ho parlato prima. Ma la cosa finisce qui, perché mentre Halloween dimostra come un bel film non abbia bisogno di una trama per essere tale, Psycho basa la propria efficacia e la propria rivoluzione proprio sulla trama e sui suoi aspetti! Una differenza che mi stupisco non venga citata più spesso dai critici. Parafrasando: lo so che i cinesi e i giapponesi hanno tutti e due gli occhi a mandorla e abitano vicini, ma quando scopri che gli scambi culturali più importanti che hanno avuto fino alla seconda metà del 900 sono stati una decina guerre, cominci a farti qualche domanda.

Non penso serva aggiungere molto, nemmeno fare delle critiche. Alcuni film non possono più essere criticati, perché il loro valore storico e stilistico è ormai troppo condiviso e consolidato, perché la loro presenza nella nostra memoria di popolo del mondo è troppo pervasiva: nelle conversazioni, nelle azioni, nelle reazioni, anche inconsapevolmente.
Questo è un di quei film.
Non ho parlato delle musiche, della sceneggiatura, della fotografia e di un sacco di altra roba. Ma seriamente: ce n'è bisogno?

Pietro Pagliana

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