giovedì 30 aprile 2015

Diario di Guernica - Accarezzando le onde

Pagina 11


Il mio nome è Tawonga e questa è la mia storia. Il mio viaggio incomincia nel 2008, quando avevo 8 anni. Un giorno d'estate, i miei genitori presero me e i miei fratelli e si chiusero per sempre alle spalle la porta di quella che fino ad allora era stata la mia casa. Violenza, corruzione, epidemie e follia avevano conquistato la città da tempo immemore.

N'Djamena, la capitale del Ciad, risuonava di mille rumori, dai clacson delle auto ai campanelli delle biciclette, dalle urla dei commercianti al mercato cittadino allo scricchiolio della ghiaia sotto i sandali dei monaci che benedivano i miserabili in fin di vita sul ciglio delle strade. Ci volle quasi un'ora per lasciarsi dietro la periferia cittadina. Un gruppo formato da altre tre o quattro decine di persone ci attendeva all'imbocco della strada sterrata in direzione nord-ovest. Quel gruppo sarebbe stato il mio riferimento per tutto l'anno avvenire.

Dopo un mese di marce serrate, arrivammo al confine con il Niger. La frontiera non era sorvegliata in toto e ci fu facile, per me, la mia famiglia e gli altri viaggiatori, entrare nello stato. Durante il tragitto fin lì, avevo conosciuto un altro bambino, all'incirca della mia stessa età, Ismael. La sua famiglia era composta solo dalla madre e dal cane di famiglia, un bastardo malandato e denutrito che di notte non faceva altro che guaire. La bestiola si chiamava Staark.

L'attraversamento del Niger si era rivelato più complicato del previsto: la nostra guida, se così si può chiamare, ci faceva spesso attendere giornate intere nascosti nella vegetazione dell'arido deserto, spiegandoci che quelle zone erano oggetto di contesa tra i signori della guerra locali. Impiegammo ben 4 mesi ad attraversare tutta la nazione, molti di noi morirono, compresi due dei miei cinque fratelli. Morirono a causa dell'acqua putrida, una mattina non si alzarono dal letto accusando fortissimi dolori all'addome. La guida espresse bene il concetto: non ci si poteva fermare, o noi o loro. A mia madre si ruppe il cuore nell'abbandonare le sue due creature. Li lasciò all'ombra di un olmo selvatico, ormai stremati. Due spari echeggiarono nel silenzio della desolazione. Da quel giorno, mia madre si lasciò morire poco alla volta.

Nel gennaio del 2009 arrivammo a Djanet, un modesta cittadina dell'Algeria. Il nostro gruppo era stato decimato dalla fame e dalle malattie, io pensavo che buona parte di quelle perdite fosse avvenuta a causa dell'inefficienza della guida. Erano trascorse ormai 2  settimane dal nostro arrivo a Djanet, ma l'attesa sembrava destinata a prolungarsi. La guida ci aveva spiegato che dovevamo prima fare rifornimenti sufficienti per la traversata del deserto libico, in modo che durante il lungo tragitto avessimo di che sopravvivere. Un giorno, precisamente il giorno prima della partenza, stavo giocando con Ismael. Ci correvano l'uno dietro l'altro, senza pensieri, senza paure, quando sentii un forte dolore proprio sotto alla caviglia destra. La scarpa si era squarciata e una pietra mi aveva tagliato la parte inferiore del tallone. Ismael cercò di bendarmi alla bell'e meglio con uno strappo della sua maglietta riuscendo a bloccare la piccola emorragia. Rimaneva il problema della scarpa, materiale prezioso per chi, senza nulla, si accinge ad attraversare 1000 kilometri di deserto.

Erano due mesi che camminavamo tra le dune gialle. Erano due mesi che le mie labbra avevano perso completamente la sensibilità per la poca idratazione. La schiena di mio padre, a cui ero aggrappato, era diventata ricurva e raggrinzita. I suoi occhi, dopo la morte di mia madre, erano diventati opachi, privi di luce in quel mare di sole. Eravamo rimasti in 28 dai 64 che erano partiti. Il deserto, ora, conservava le loro ossa e la loro carne, le loro speranze e le loro memorie. Ero l'ultimo rimasto dei miei fratelli, tutti caduti sotto i dardi del sole. Ismael ed io ci sostenevamo a vicenda. Una notte di inizio luglio, oltre al freddo si aggiunsero i crampi per la fame. Tremavo e con me tremava Ismael, Staark latrava come al solito. I nostri sguardi si intrecciarono, complici del pensiero primitivo che ci attagliava il cuore. Fu un momento e Staark smise di guaire. Lo divorammo crudo, come animali selvatici, inzuppandoci per fauci e le dita del sangue della bestia. 

Finalmente una città, finalmente Hun. Hun era una piccola città nell'ovest della Libia. La guida ci condusse ad un edificio squartato per metà da un missile. Nel paese imperversava una follia omicida di tutti contro tutti per la supremazia e il potere. Ritornò al campo base un giorno, mio padre, tenendo con sé un sacchetto di plastica. Era la prima volta dalla morte della mamma che un sorriso si affacciava sulle sue labbra. Mi porse il sacchetto. Bellissime, un paio di scarpe nuove di zecca mi guardavano e io guardavo loro. Nere e verde chiaro, stupende.

Il viaggio era ricominciato, Ismael ed io facevamo a turno per indossare le scarpe ed eravamo giunti al compromesso di tenerne una a testa durante i tragitti più lunghi. Mio padre era nuovamente opaco, la sua bocca non riusciva più ad esprimere il dolore che portava nel cuore, la sua pelle era devastata dalle piaghe per la continua esposizione ai fortissimi raggi solari. Mi aveva regalato la sua maglia Nike qualche mese prima. Un giorno mi prese da parte durante una sosta all'ombra di una palma. 

- Tawonga, sei arrivato fin qui perché così è scritto - mi disse - Continuerai fino a quando non vivrai per me e per la tua famiglia.

Alcuni dicono che i cani, come i leoni e i delfini, intuiscano quando la propria ora è giunta, isolandosi dal branco per morire in solitudine.

Il primo giorno del 2010 arrivammo alle porte di Tripoli. La città, massacrata dalla guerra civile, mi sembrava la ricostruzione della miseria di N'Djamena. Strinsi la mano ad Ismael e, scarpa a scarpa, superammo le porte della città. Il porto di Tripoli ci accolse con urla, spari e minacce. Noi, i 9 superstiti del gruppo iniziale, fummo assegnati al barcone 'Ithemba' ('Speranza').

La stiva era stracolma, donne, vecchi, bambini affollavano l'angusto spazio che ci era destinato. Ad un tratto si udirono degli spari e la paura prese il sopravvento. Ismael ed io cercammo di ritrovarci nella folla impazzita e intrappolata, ma senza successo. La luce si spense e le grida si fecero più forti. 

Ora capisco, ora posso capire tutti gli avvenimenti che mi hanno portato qui. Finalmente libero, accarezzo le onde che mi portano alla deriva. Due cose mi mancano: Ismael e la mia scarpa. E dire che non sapevo nemmeno dove mi stavo dirigendo. E dire che il fondo del mare me lo aspettavo più azzurro. E dire che avevo promesso tutt'altro agli occhi opachi di mio padre.




Gianluca 'Miguel' Minuto 


Nessun commento:

Posta un commento