Viaggio nella desolazione delle idi di marzo
PREMESSA – Ho affrontato questo viaggio nel marzo del 2013,
quasi 3 anni fa, e forse solo adesso mi rendo conto di ciò che ho
provato. Forse solo adesso, a tantissimi giorni di distanza da quel viaggio e
da quell’esperienza, posso finalmente rendermi conto di ciò che ho vissuto, di
ciò che ho avuto la fortuna di vedere e di ciò che ho avuto la fortuna di non
provare. Premetto che la mia esperienza è simile a quella dell’andare al cinema
da solo o in compagnia: guardare un film da solo ti fa provare emozioni più
profonde, ti fa raggiungere riflessioni più complesse rispetto a quelle provate
guardando lo stesso film in compagnia. Questo è quello che ho provato io. Lì,
nella desolazione di un campo sterminato per dimensione e storia, non ho
provato nemmeno un decimo delle sensazioni vissute nel ricordo dopo essere
tornato. Questo, secondo me, è l’essenza più forte che quella visita ha voluto
e dovuto trasmettermi: la riflessione.
Il marzo 2013 ancora me lo ricordo. Pioggia a non finire,
giornate lunghe come non mai coperte da una lamina grigia al posto del cielo.
Sembrava, anzi, mi sembrava che Torino mi stesse preparando psicologicamente al
viaggio che avrei dovuto affrontare l’indomani. Quel 6 marzo cadeva di mercoledì.
Il giorno prima di partire, domenica, è volato in un soffio.
Parenti che vengono a salutarmi, amici che mi chiedono foto al mio rientro,
caffè rituali pre-partenza, avevano affollato la mia giornata tanto che mi resi
conto che l’imminente viaggio in Polonia alla volta di Cracovia sarebbe
iniziato solo sei ore più tardi. Tutto sommato, il viaggio sarebbe durato solo
una settimana.
Decisi che era meglio non riposarmi troppo viste le 22 ore
di pullman che mi attendevano. Sì, sono andato in pullman. Sono andato in
pullman perché i fondi per finanziare il treno erano esauriti.
Naturalmente il giorno della partenza era bagnato dalla
sempre grigia pioggia del marzo torinese. Gli umori controversi scolpivano in
modo netto le facce dei miei coetanei che salivano, uno ad uno, sul pullman.
Ancora me li ricordo quegli sguardi, quei sorrisi storti che mi ricordavano
fortemente l’espressione di chi prende per la prima volta l’aereo, un miscuglio
di ansia, sorpresa e sdrammatizzazione.
Il viaggio fila liscio, per modo di dire, per le sue 22 ore
totali di traversata europea. Mi ricordo che quando scesi dal pullman mi
ripromisi che d’ora in avanti avrei preso solamente l’aereo per percorsi così
lunghi.
Cracovia ci accoglie con la stessa cortina di pioggia con
cui ci aveva lasciato Torino. La città mi ricorda molto, per quanto riguarda le
persone, le città di provincia italiane. Gli sguardi sfuggenti delle persone
che guardano allo straniero, squadrandolo da cima a fondo, mi mettono subito in
soggezione.
D’istinto cerco il dialogo con commessi nei negozi o
camerieri nei ristoranti, appellandomi al mondo del pallone che vede militare
il capitano granata, Kamil Glik, nelle fila della nazionale polacca. Niente. I
miei tentativi cadono nel vuoto con chiunque io provi a conversare. In quel
momento, solo in quel momento mi accorgo che la nomea di Cracovia, legata al
più conosciuto e temuto campo di concentramento e sterminio, si riflette anche
su chi la abita, rendendo troppo palese il motivo di tante visite turistiche.
ll volto dei polacchi di Cracovia è pesto, marcato da una
malinconia palpabile. Volti quasi del colore del cielo
I quattro giorni che precedono la visita al campo
trascorrono freneticamente. intensificati da giri per la città, incontri
informativi circa l’esperienza che stiamo vivendo e visite al ghetto ebraico.
La storia del coraggio di Schindler riecheggia nella mia mente, le vicende
raccontate dai muri della città si ripropongono sotto forma di immagini nella
mia mente ogni volta che chiudo gli occhi per addormentarmi.
Infine arriva il giorno. Veniamo svegliati dalla sveglia
alle 06:00 in punto, ma nel nostro inconscio non ci siamo mai addormentati per
davvero. Anche se il viaggio si sta dimostrando, almeno per me, meno drammatico
di quel che immaginavo, un ronzio quasi sordo non mi ha mai abbandonato dal
momento in cui siamo partiti dall’Italia, come monito che c’è qualcosa da tener
a mente, qualcosa da non sottovalutare, qualcosa che potrebbe cambiarmi.
La colazione nell’ostello è diversa dalle altre mattine,
almeno io la percepisco differente. Gli sguardi non si incrociano, quasi come
se non si volesse rivelare agli altri l’attesa snervante provocata dal non
sapere esattamente a cosa ci si sta avvicinando. Il pullman, per una volta, è
silenzioso. Il silenzio denso e pesante viene interrotto solo dalla voce
metallica del microfono che ci annuncia l’arrivo al complesso Auschwitz-Birkenau.
Non vi racconterò la visita, ma le sensazioni e i pensieri
che mi hanno colpito.
A differenza di molti miei compagni di viaggio, la purtroppo
celeberrima quanto sarcastica scritta troneggiante sul cancello principale di
Auschwitz non mi impressionò più di tanto.
Furono gli occhi della guida che ce
la mostrò. L’uomo, di cui non ricordo il nome, era polacco. Internato negli
ultimi mesi di ‘vita’ del campo, era stato liberato dalle truppe sovietiche.
Parlava un discreto italiano. Aveva un volto inespressivo, le rughe affollavano
guance e zigomi, la fronte alta tipica delle persone dell’est. Ricordo ancora i
suoi occhi, erano opachi, di un colore indefinibile come il sapore dell’acqua.
Camminiamo nel campo. Gli unici rumori che spaccano un
silenzio pesantissimo sono lo scricchiolare della ghiaia sotto i nostri piedi e
i ‘click’ delle macchine fotografiche. Forse qualcuno sta anche singhiozzando.
Mi soffermo a fissarmi i piedi. Erano gelati, eppure quel
mattino avevo consumato un’abbondante colazione e le scarpe, seppur
inzaccherate di fango, erano di quelle da escursioni. Fu in quel momento che,
forse, capii ciò che significavano le varie testimonianze ascoltate.
Proseguimmo.
Ancora una volta mi guardai i piedi, eravamo di fronte al
muro delle esecuzioni, tristemente ribattezzato ‘Muro della morte’. Ciascuno di
noi se, sfortunatamente, si trovasse a passare, nella vita e nei luoghi di
tutti i giorni, davanti o vicino ad un luogo in cui qualcuno ha perso la vita,
lo eviterebbe un po’ per rispetto un po’ per scaramanzia. Ecco, i miei piedi stavano
camminando su un suolo che aveva ospitato cadaveri nell’ordine delle centinaia
di migliaia.
Arriviamo al punto che più di tutti suscita sgomento nei
visitatori: le camere a gas. Non più di 30 metri quadrati ospitavano una tale
quantità di pensieri, preghiere, paure e speranze che pareva sul punto di
esplodere da un momento all’altro. Qualcuno non ce la fece e dovette uscirne, pallido
e nauseato. Alcuni particolari sulle pareti attirarono la mia attenzione. I
quattro muri mi presentavano in un modo così diretto e mostruoso gli ultimi
istanti di vita dei morituri. Esitai ad avvicinarmi. Come per repulsione
magnetica il mio cervello si rifiutava di far muovere le gambe verso le pareti,
immedesimandosi in qualcuno di coloro che, quelle pareti, le hanno potute
guardare a pochi istanti dalla fine. Sconfitto il tentennamento, mi trovo a
ridosso della parete. I graffi affollano l’intonaco come a voler firmare l’ultimo
disperato tentativo di fuga. L’impatto fu troppo forte, così, per rimanere
impassibile agli occhi degli altri, decisi di uscire. Una volta fuori l’aria
era più fresca, mi sembrò che un vento di primavera avesse cominciato a
soffiare non appena fui uscito. Non era così. Fuori era sempre uguale, era
dentro che tutto cambiava.
Proseguimmo fino ai forni crematori, di cui i tedeschi in
fuga avevano lasciato ben poco da guardare. Macerie nere di fuliggine e cenere
giacevano nella fanghiglia di inizio primavera.
Ascoltando la spiegazione nell’italiano
stentato della guida, un particolare mi fece rabbrividire: la gara d’appalti.
All’epoca numerose ditte tedesche si erano battute aspramente per vincere l’appalto
della fornitura del materiale e per la realizzazione di uno dei simboli più
drammatici dell’olocausto, i forni crematori. Questo mi portò a pensare di
quanta burocrazia sia necessaria per rimpiazzare l’anima di una persona. Quanto
denaro serve per comprare l’umanità di qualcuno. Domande a cui allora e adesso
non trovo una risposta neanche lontanamente plausibile.
Ultima tappa fu lo sconfinato panorama di Birkenau.
Costellata di baracche, immaginatevi un’area grossa almeno 20 campi da calcio.
E qui un altro particolare mi fece sussultare. Appresi sempre dalla guida dagli
occhi opachi, che il legno delle baracche era stato prelevato dalle abitazioni
dei paesi vicini, i cui proprietari, una volta liberato il lager, erano tornati
al campo, sradicato le assi di legno necessarie e tornati da dove erano venuti.
Già solo il pensiero di abitare vicino ad un luogo di così tanto orrore non mi
sfiorerebbe nemmeno negli incubi più cupi, ma abitare in una casa costruita con
pezzi provenienti da un luogo simile è qualcosa, per me, giustificabile
soltanto dalla gravissima mancanza di materiale da parte di quegli abitanti.
Ricostruzione virtuale di Birkenau prima del '45 |
PER CONCLUDERE – So che quest’articolo è decisamente più
lungo rispetto al format ordinario, ma per questo genere di cose, secondo me,
non deve esistere standardizzazione. Mi auguro che chi non ci sia ancora stato,
prenoti una visita. Mi auguro che chi la pensa in modo diverso abbia comunque
imparato e interiorizzato qualcosa da questo mio scritto. Mi auguro che le
continue sconfitte dell’umanità a vantaggio del denaro possano avere tregua, se
non fine, partendo da questo punto. Dopo 70 anni, forse qualcosa cambierà.
Per voi e per
Informazione Gialla, Gianluca ‘Miguel’ Minuto
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