mercoledì 28 gennaio 2015

Il mio ricordo della Memoria


Viaggio nella desolazione delle idi di marzo



PREMESSA – Ho affrontato questo viaggio nel marzo del 2013, quasi 3 anni fa, e forse solo adesso mi rendo conto di ciò che ho provato. Forse solo adesso, a tantissimi giorni di distanza da quel viaggio e da quell’esperienza, posso finalmente rendermi conto di ciò che ho vissuto, di ciò che ho avuto la fortuna di vedere e di ciò che ho avuto la fortuna di non provare. Premetto che la mia esperienza è simile a quella dell’andare al cinema da solo o in compagnia: guardare un film da solo ti fa provare emozioni più profonde, ti fa raggiungere riflessioni più complesse rispetto a quelle provate guardando lo stesso film in compagnia. Questo è quello che ho provato io. Lì, nella desolazione di un campo sterminato per dimensione e storia, non ho provato nemmeno un decimo delle sensazioni vissute nel ricordo dopo essere tornato. Questo, secondo me, è l’essenza più forte che quella visita ha voluto e dovuto trasmettermi: la riflessione.

Il marzo 2013 ancora me lo ricordo. Pioggia a non finire, giornate lunghe come non mai coperte da una lamina grigia al posto del cielo. Sembrava, anzi, mi sembrava che Torino mi stesse preparando psicologicamente al viaggio che avrei dovuto affrontare l’indomani. Quel 6 marzo cadeva di mercoledì.


Il giorno prima di partire, domenica, è volato in un soffio. Parenti che vengono a salutarmi, amici che mi chiedono foto al mio rientro, caffè rituali pre-partenza, avevano affollato la mia giornata tanto che mi resi conto che l’imminente viaggio in Polonia alla volta di Cracovia sarebbe iniziato solo sei ore più tardi. Tutto sommato, il viaggio sarebbe durato solo una settimana.

Decisi che era meglio non riposarmi troppo viste le 22 ore di pullman che mi attendevano. Sì, sono andato in pullman. Sono andato in pullman perché i fondi per finanziare il treno erano esauriti.

Naturalmente il giorno della partenza era bagnato dalla sempre grigia pioggia del marzo torinese. Gli umori controversi scolpivano in modo netto le facce dei miei coetanei che salivano, uno ad uno, sul pullman. Ancora me li ricordo quegli sguardi, quei sorrisi storti che mi ricordavano fortemente l’espressione di chi prende per la prima volta l’aereo, un miscuglio di ansia, sorpresa e sdrammatizzazione.

Il viaggio fila liscio, per modo di dire, per le sue 22 ore totali di traversata europea. Mi ricordo che quando scesi dal pullman mi ripromisi che d’ora in avanti avrei preso solamente l’aereo per percorsi così lunghi.


Cracovia ci accoglie con la stessa cortina di pioggia con cui ci aveva lasciato Torino. La città mi ricorda molto, per quanto riguarda le persone, le città di provincia italiane. Gli sguardi sfuggenti delle persone che guardano allo straniero, squadrandolo da cima a fondo, mi mettono subito in soggezione.


D’istinto cerco il dialogo con commessi nei negozi o camerieri nei ristoranti, appellandomi al mondo del pallone che vede militare il capitano granata, Kamil Glik, nelle fila della nazionale polacca. Niente. I miei tentativi cadono nel vuoto con chiunque io provi a conversare. In quel momento, solo in quel momento mi accorgo che la nomea di Cracovia, legata al più conosciuto e temuto campo di concentramento e sterminio, si riflette anche su chi la abita, rendendo troppo palese il motivo di tante visite turistiche.

ll volto dei polacchi di Cracovia è pesto, marcato da una malinconia palpabile. Volti quasi del colore del cielo


I quattro giorni che precedono la visita al campo trascorrono freneticamente. intensificati da giri per la città, incontri informativi circa l’esperienza che stiamo vivendo e visite al ghetto ebraico. La storia del coraggio di Schindler riecheggia nella mia mente, le vicende raccontate dai muri della città si ripropongono sotto forma di immagini nella mia mente ogni volta che chiudo gli occhi per addormentarmi.



Infine arriva il giorno. Veniamo svegliati dalla sveglia alle 06:00 in punto, ma nel nostro inconscio non ci siamo mai addormentati per davvero. Anche se il viaggio si sta dimostrando, almeno per me, meno drammatico di quel che immaginavo, un ronzio quasi sordo non mi ha mai abbandonato dal momento in cui siamo partiti dall’Italia, come monito che c’è qualcosa da tener a mente, qualcosa da non sottovalutare, qualcosa che potrebbe cambiarmi.

La colazione nell’ostello è diversa dalle altre mattine, almeno io la percepisco differente. Gli sguardi non si incrociano, quasi come se non si volesse rivelare agli altri l’attesa snervante provocata dal non sapere esattamente a cosa ci si sta avvicinando. Il pullman, per una volta, è silenzioso. Il silenzio denso e pesante viene interrotto solo dalla voce metallica del microfono che ci annuncia l’arrivo al complesso Auschwitz-Birkenau.


Non vi racconterò la visita, ma le sensazioni e i pensieri che mi hanno colpito.



A differenza di molti miei compagni di viaggio, la purtroppo celeberrima quanto sarcastica scritta troneggiante sul cancello principale di Auschwitz non mi impressionò più di tanto. 


Furono gli occhi della guida che ce la mostrò. L’uomo, di cui non ricordo il nome, era polacco. Internato negli ultimi mesi di ‘vita’ del campo, era stato liberato dalle truppe sovietiche. Parlava un discreto italiano. Aveva un volto inespressivo, le rughe affollavano guance e zigomi, la fronte alta tipica delle persone dell’est. Ricordo ancora i suoi occhi, erano opachi, di un colore indefinibile come il sapore dell’acqua.

Camminiamo nel campo. Gli unici rumori che spaccano un silenzio pesantissimo sono lo scricchiolare della ghiaia sotto i nostri piedi e i ‘click’ delle macchine fotografiche. Forse qualcuno sta anche singhiozzando.


Mi soffermo a fissarmi i piedi. Erano gelati, eppure quel mattino avevo consumato un’abbondante colazione e le scarpe, seppur inzaccherate di fango, erano di quelle da escursioni. Fu in quel momento che, forse, capii ciò che significavano le varie testimonianze ascoltate. 

Proseguimmo.


Ancora una volta mi guardai i piedi, eravamo di fronte al muro delle esecuzioni, tristemente ribattezzato ‘Muro della morte’. Ciascuno di noi se, sfortunatamente, si trovasse a passare, nella vita e nei luoghi di tutti i giorni, davanti o vicino ad un luogo in cui qualcuno ha perso la vita, lo eviterebbe un po’ per rispetto un po’ per scaramanzia. Ecco, i miei piedi stavano camminando su un suolo che aveva ospitato cadaveri nell’ordine delle centinaia di migliaia.



Arriviamo al punto che più di tutti suscita sgomento nei visitatori: le camere a gas. Non più di 30 metri quadrati ospitavano una tale quantità di pensieri, preghiere, paure e speranze che pareva sul punto di esplodere da un momento all’altro. Qualcuno non ce la fece e dovette uscirne, pallido e nauseato. Alcuni particolari sulle pareti attirarono la mia attenzione. I quattro muri mi presentavano in un modo così diretto e mostruoso gli ultimi istanti di vita dei morituri. Esitai ad avvicinarmi. Come per repulsione magnetica il mio cervello si rifiutava di far muovere le gambe verso le pareti, immedesimandosi in qualcuno di coloro che, quelle pareti, le hanno potute guardare a pochi istanti dalla fine. Sconfitto il tentennamento, mi trovo a ridosso della parete. I graffi affollano l’intonaco come a voler firmare l’ultimo disperato tentativo di fuga. L’impatto fu troppo forte, così, per rimanere impassibile agli occhi degli altri, decisi di uscire. Una volta fuori l’aria era più fresca, mi sembrò che un vento di primavera avesse cominciato a soffiare non appena fui uscito. Non era così. Fuori era sempre uguale, era dentro che tutto cambiava.



Proseguimmo fino ai forni crematori, di cui i tedeschi in fuga avevano lasciato ben poco da guardare. Macerie nere di fuliggine e cenere giacevano nella fanghiglia di inizio primavera. 


Ascoltando la spiegazione nell’italiano stentato della guida, un particolare mi fece rabbrividire: la gara d’appalti. All’epoca numerose ditte tedesche si erano battute aspramente per vincere l’appalto della fornitura del materiale e per la realizzazione di uno dei simboli più drammatici dell’olocausto, i forni crematori. Questo mi portò a pensare di quanta burocrazia sia necessaria per rimpiazzare l’anima di una persona. Quanto denaro serve per comprare l’umanità di qualcuno. Domande a cui allora e adesso non trovo una risposta neanche lontanamente plausibile.


Ultima tappa fu lo sconfinato panorama di Birkenau. Costellata di baracche, immaginatevi un’area grossa almeno 20 campi da calcio. E qui un altro particolare mi fece sussultare. Appresi sempre dalla guida dagli occhi opachi, che il legno delle baracche era stato prelevato dalle abitazioni dei paesi vicini, i cui proprietari, una volta liberato il lager, erano tornati al campo, sradicato le assi di legno necessarie e tornati da dove erano venuti. Già solo il pensiero di abitare vicino ad un luogo di così tanto orrore non mi sfiorerebbe nemmeno negli incubi più cupi, ma abitare in una casa costruita con pezzi provenienti da un luogo simile è qualcosa, per me, giustificabile soltanto dalla gravissima mancanza di materiale da parte di quegli abitanti.

Ricostruzione virtuale di Birkenau prima del '45




PER CONCLUDERE – So che quest’articolo è decisamente più lungo rispetto al format ordinario, ma per questo genere di cose, secondo me, non deve esistere standardizzazione. Mi auguro che chi non ci sia ancora stato, prenoti una visita. Mi auguro che chi la pensa in modo diverso abbia comunque imparato e interiorizzato qualcosa da questo mio scritto. Mi auguro che le continue sconfitte dell’umanità a vantaggio del denaro possano avere tregua, se non fine, partendo da questo punto. Dopo 70 anni, forse qualcosa cambierà.




Per voi e per Informazione Gialla, Gianluca ‘Miguel’ Minuto



















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